(di Manlio Brunetti)
La storiografia risorgimentale liberaleggiante ha pronunciato, e in molti suoi autori mantiene su Pio IX un giudizio negativo, per non aver egli abdicato spontaneamente allo stato pontificio e a Roma, al fine di rendere possibile l’unificazione d’Italia sotto la monarchia sabauda.
In questa avversione a Pio IX sul versante politico sono coinvolti anche cattolici, i quali, semmai, avrebbero potuto contestare, in una prospettiva puramente religiosa, in nome del vangelo, l’opportunità di un dominio temporale dei papi: intuizione che qualcuno ebbe, ma, in quel complesso momento storico, non riuscì a far valere nei suoi termini propri, soverchiato com’era in molti lo spirito religioso da aspettative e rivalse politiche.
Ma c’è un versante ecclesiologico di riserve su Pio IX. E su questo versante distinguerei fra la questione teologica dell’infallibilità del papa e le questioni storiche sul papa dell’infallibilità.
In questo ultimo preciso ambito perplessità su Pio IX si desumono dalla sua conduzione del Concilio Vaticano o, almeno, di tutta quella sua seconda parte e delle sessioni da cui uscì la definizione dogmatica Pastor Aeternus.
Ne parliamo, in questo Convegno storico, sia perché l’argomento riguarda più la storia che la teologia, sia perché la storiografia antipiana tradizionale, stereotipa, assomma anche questi addebiti di competenza ecclesiologica a quelli politici, allo scopo di accreditare maggiormente il verdetto che Pio IX sarebbe stato, non un grande uomo, non un grande papa, in quello che fu invece grande momento storico, in un momento storico comunque troppo grande soprattutto per lui.
1 – RISERVE TEOLOGICHE
Le accuse a Pio IX, sul versante propriamente ecclesiologico, vengono da teologi detti progressisti, di frontiere, o del dissenso. Sono
H. KUNG (L’infallibilità, Mondadori, 1977, p.65; La Chiesa, Queriniana, 1969, p. 541)
A.B. HASLER (Pio IX. L’infallibilità del Papa e il Concilio Vaticano I, 2 voll., Stuttgart 1977; Come il papa divenne infallibile. Retroscena del Vaticano I, Pref. di H. Kung, orig. 1979, Torino 1982)
P. DE ROSA (Vicario di Cristo. Il lato oscuro del papato, Armenia editore, 1985, pp. 260-263).
Il più esasperato dei tre è De Rosa, il quale, senza arrecare prove documentarie, afferma che dell’infallibilità pontificia non è traccia né nella Scrittura né nella Tradizione; che, anzi, la storia dimostra doviziosamente il contrario; e che quella successiva al Concilio prova la sterilità del dogma di fronte all’attesa di verità importanti. Ne conclude che “nessun nemico avrebbe potuto danneggiare la Chiesa più di Pio IX” e che “difficilmente nella storia avrebbe potuto esserci un papa cui applicare l’aggettivo di infallibile con maggiore trepidazione”.
De Rosa si appoggia evidentemente ad Hasler. Questi poi offre anche alle tesi di Kung una ricca documentazione desunta da archivi di tutta l’Europa. A sua volta H. Kung ha prefato l’edizione minore di Hasler, sottolineando la convergenza nel giudizio negativo su Pio IX.
Pio IX avrebbe convocato il Concilio mosso soprattutto da ambizioni personali ed avrebbe fatto dell’infallibilità (della/nella Chiesa) una questione ed una istanza personalissime per risarcirsi moralmente della deminutio politica: per riaccreditare il suo prestigio e riproporre la sua autorità, in forte calo dopo l’usurpazione dello Stato pontificio e la prevedibile prossima occupazione di Roma.
Avrebbe voluto che fosse proclamata di fede l’incondizionata infallibilità del papa (e quindi la sua propria),
nonostante fosse priva di validi fondamenti scritturistici,
non fosse attestata da autentica ed universale tradizione,
fosse del tutto inopportuna dal punto di vista politico,
mettesse la Chiesa in totale contraddizione con la cultura moderna,
avesse contro un’agguerrita ed informata minoranza.
E per ottenere quella definizione, avrebbe forzato il Concilio:
cioè montata e plagiata la maggioranza,
imposto presidenze, commissioni, regolamenti e formule,
intimorito e ricattato e diviso la minoranza antiinfallibilista, la quale, ciononostante, si contrappose fino all’ultimo, disertando poi la votazione finale, così facendo mancare la unanimità morale alla Costit. Pastor Aeternus.
Il comportamento di Pio IX durante i lavori del Concilio, la durezza mostrata verso gli antiinfallibilisti, il non essere stato, egli, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali (come si evincerebbe dallo scontro col patriarca melchita Gregorio Yussef e con il card. Guidi), proverebbero che il Concilio non ha avuto una libertà sufficiente e che quindi almeno la sua seconda Costituzione, la Pastor Aeternus, non può considerarsi valida.
Infine, l’accettazione del dogma da parte della minoranza anti infallibilista è frutto delle pressioni subite e si riduce ad un atto di obbedienza, non ad una convinta professione di fede.
2 – MOTIVI PER LA DEFINIZIONE
Come stanno le cose dal punto di vista storico-documentario?
In un Convegno di studi storici si desidererebbero contributi inediti,
che potrebbero venire o da una nuova documentazione o da una nuova ma fondata e autentica interpretazione di quella esistente.
Ebbene, non esiste nuova documentazione. Quella di Aubert, Hasler e Martina può considerarsi definitiva.
E possibile invece una nuova interpretazione, che si ottiene rendendocisi conto di tesi preconcette che comandino la interpretazione vulgata dei documenti;
liberando le testimonianze da quegli schemi ed orizzonti estrinseci;
in modo che se ne ricavi tutto e solo quello che esse dicono.
Come stanno dunque le cose in questa nuova ermeneusi storica?
Ebbene, sì, quella definizione Pio IX la volle.
Ma è storicamente certo che non la volle per motivi politici (per definire la necessità del potere temporale e l’intangibilità di Roma, e la supremazia della Chiesa sullo stato).
Attribuire a papa Mastai moventi politici anche rispetto a materie di così totale ed esclusiva rilevanza teologica ed ecclesiale, come è un concilio, significa obliterarne la essenziale ed epicentrica religiosità.
Se intenzioni e preoccupazioni puramente politiche, non religiose, spinsero i governi austriaco, francese e italiano…, a pressioni nella fase preparatoria del Concilio, una convinzione illuminava la sua mente: che l’infallibilità fosse la vera ragione della presenza della Chiesa nella storia dell’umanità.
L’intenzione espressamente e reiteratamente da lui manifestata in pubblico e in privato fu quella di dare alla Chiesa la consapevolezza acquisita di un’altra verità di fede; di far sì che la Chiesa attestasse pubblicamente di fronte al mondo, in relazione alle decantate sue nuove verità contrastanti con la fede cristiana, la propria certezza di essere concretamente, ossia nella persona del suo capo visibile, assistita dallo Spirito, di non poter cadere in errore.
Una interpretazione entusiastica – si dirà – della Chiesa ed, in essa, del papato. Certo, l’idea che a Lui ne veniva da una fede ardente, dal suo temperamento, dalla cultura apologetica del suo tempo. Ma quella altissima, soprannaturalistica, quasi teofanica concezione che egli ebbe del papato, non fu mai disgiunta in lui da un grande sentimento d’umiltà: sempre egli distinguendo ciò che gli veniva dal ruolo e quello concerneva, da ciò che gli era comune con tutti per nascita; sempre attento a che l’umiltà, in cui vedeva se stesso, non pregiudicasse, in se medesimo e in altri, la fede e la devozione verso il papato (e in tale ottica, ad esempio, ha ben altro senso che di tracotanza e di irriverenza l’aneddoto, riferito anche da Hasler in versione certamente malevola, del patriarca greco-melchita Jussef).
È vero, quella definizione Pio IX la volle.
Ma non s’inventò quel dogma. Né si fabbricò, lui, in Concilio, una maggioranza per poterlo definire.
Antecedentemente all’apertura del Concilio esisteva in Europa (e in America) una forte corrente dottrinale, l’ultramontanismo, erede della ecclesiologia gregoriana, che chiedeva il rafforzamento dell’autorità pontificia (e la conseguente centralizzazione del governo della Chiesa) per meglio resistere all’assalto del giurisdizionalismo aconfessionale e in contrapposizione agli ultimi residui di gallicanismo, e professava la fede nell’infallibilità del papa, della quale vari concili provinciali già chiedevano la definizione. C’era perfino chi, in nome di quella infallibilità, considerava superfluo un Concilio: “Non abbiamo il Papa? Non ha egli il potere di decidere ogni questione?” (F. Lagrange, Vie de Mgr Dupanloup, III, p. 55).
Rispetto a questo movimento dal basso, la santa Sede e Pio IX in particolare, intervengono, semmai, in secondo momento, in fase avanzata, per secondarlo, accelerarlo, portarlo a conclusione (Martina, Pio IX, Chiesa e mondo moderno, Studium, p. 65).
Lo stesso Kung non s’accorge di tirar acqua ad altrui mulino quando ammette che “sulla definizione dell’infallibilità papale tutto era già deciso ben prima che decidesse il Concilio”: ossia che l’infallibilità papale “era già cosa ovvia per la maggioranza dei vescovi, prima ancora che venisse definita! Pur non approvando tutte le tendenze centralistiche della curia, questi prelati non avevano nulla in contrario a che il Concilio sanzionasse solennemente l’infallibilità del papa, un’infallibilità che, almeno nella prassi, era da tempo ormai accettata dalla totalità dei loro fedeli e del loro clero, la cui esattezza teologica era per loro un solido dato di fatto”.
3 – MAGGIORANZA E MINORANZA
Su 774 Padri (dei 104 vescovi cattolici del mondo) che 1’8-12-1869 si presentarono al Concilio (ridottisi infine a non più di 600), secondo Hasler: 130 erano fermamente antiinfallibilisti, 500 indecisi, e una cinquantina infallibilisti convinti.
Secondo Martina: la maggioranza infallibilista, fra estremisti e moderati, sarebbe stata all’inizio di almeno 450 padri, saliti poi a 480 e giunti nella votazione finale a 533.
La minoranza poteva contare all’inizio un 150 padri, scese poi a 110 e infine a una sessantina.
Questi computi hanno minore o nessun senso, quando si pensi che i moderati dell’uno e dell’altro campo potevano convergere in un terzo partito (quello del De Bonnechase); e soprattutto quando si pesino bene le tesi dei cosiddetti anti infallibilisti.
Erano anch’essi convinti assertori della dottrina dell’infallibilità della Chiesa e del suo Capo (Martina dice, p. 197, che nessuno dei padri conciliari negava questa tesi!).
La controversia era: sull’opportunità politica o sulla opportunità teologica (fondamenti scritturistici e di Tradizione) della definizione (donde il nome di anti opportunisti a chi negava) o su alcuni problemi di fondo.
Ci si chiedeva, infatti, quale potesse essere l’oggetto della infallibilità papale e quale il rapporto di questa con il magistero episcopale. Il papa, cioè, sarebbe infallibile solo nelle definizioni solenni o anche nel suo magistero ordinario, nelle encicliche per esempio?
E le definizioni, per essere riconosciute infallibili, richiederebbero, come condizione giuridica vincolante, la previa consultazione o le conferme dell’episcopato, o sarebbero immuni da errore solo in forza della prerogativa papale? Sarebbe la infallibilità della Chiesa, testimoniata dall’insegnamento dei Vescovi, a rendere infallibile il papa; o l’infallibilità del papa a rendere infallibile la Chiesa?
La minoranza antiinfallibilista, voglio ripeterlo!, non avversava il concetto di infallibilità in sé, perché non metteva in discussione il ruolo privilegiato della chiesa romana come interprete e garante della rivelazione, ma negava che il pontefice potesse essere dichiarato l’unico depositario di questa infallibilità, che sarebbe diventata una dittatura illuminata. Chiedeva, inoltre, che l’infallibilità del papa fosse limitata alle definizioni ex cathedra e che nella formula dogmatica si richiamasse la necessità o l’opportunità della testimonianza e del consenso dell’episcopato. Riteneva, infine, che, mancando nella Scrittura e nella Tradizione esplicita continua e universale attestazione dell’infallibilità pontificia, non fosse opportuno procedere alla definizione, tanto più che questa sarebbe potuta apparire come un ripristino nemmeno larvato della teocrazia, una diminuzione delle competenze politiche degli Stati. La maggioranza, invece, giudicava ormai necessaria la dichiarazione dogmatica, stanti gli errori del tempo ed il bisogno di certezza nel campo religioso. La parte estremista, poi, avrebbe volentieri esteso il campo delle eventuali definizioni infallibili alle encicliche ed alle affermazioni anche di natura filosofica e perfino politica organicamente connesse alle verità di fede.
Soprattutto intendeva estinguere ogni residuo di gallicanismo, escludendo risolutamente ogni condizionamento dell’autorità del papa, ogni accenno alla necessità di consultare l’episcopato per la validità del deciso papale.
Se il rapporto di forza, dal punto di vista numerico, era quello già indicato, quale era dal punto di vista della scienza teologica?
Già all’interno del Concilio (Granderath), e, conseguentemente, poi da parte di storici (vedi Kung e lo stesso Martina) si osservava che il livello teologico degli interventi non era, generalmente, dei più elevati; che parecchi esponenti della maggioranza erano privi di solida formazione teologica – di cui, invece, sarebbero stati forniti in larga parte i padri della minoranza.
La lettura degli interventi, nel Mansi e nella Collectio Lacensis dà, invece, l’impressione e la constatazione che ce ne furono di grande valore e rigore dottrinale, teologico e storico, da una parte e dall’altra. Alla fin fine: i molti della minoranza – tenendo conto della proporzione – non erano più dei pochi della maggioranza. I due gruppi, insomma, quanto a dottrina, globalmente si equivalevano. (E in altra occasione si potrebbero indicare i lati deboli e i punti di forza dell’uno e dell’altro schieramento).
4 – PRIMATO DEL PAPA E CONCILIO
I1 dibattito serrato, appassionante, come comportava la caratura teologica ed istituzionale della posta in giuoco, faceva intendere che, se limiti e condizioni della infallibilità erano da stabilire e incerti, la definizione dogmatica – a meno di una sospensione del Concilio per cause esterne (pressioni del partito d’azione per l’occupazione militare di Roma) – era scontata.
Tutto sarebbe potuto andare avanti automaticamente.
Allora perché Pio IX intervenne sul Concilio (essendo vero che intervenne!) ?
Bisogna sapere che già alla vigilia del Concilio era dottrina di gran lunga più comune, in teologia speculativa e in diritto, che il Papa non fosse nel Concilio un Padre, un Vescovo come ogni altro, ma il Capo rispetto al Corpo: vi avesse cioè autorità. Che a lui spettassse convocare, presiedere, regolamentare (anche per le questioni da trattarvi), trasferire, sospendere, sciogliere il Concilio ecumenico e confermare e promulgarne i decreti. E che il potere di cui gode anche il Concilio sulla intera Chiesa non si opponesse, bensì rientrasse, si inquadrasse e si avvalorasse nella/dalla giurisdizione papale.
È vero che nei trattati teologici si ricordava ancora la teoria conciliarista, ma solo per obbligo d’inventario; e che in Francia se ne tramandava una reviviscenza detta gallicanesimo, che riconosceva al papa un primato in materia di fede, ma richiedeva l’assenso della Chiesa per l’immutabilità del suo giudizio. Ma, contro, Concili regionali e Vescovi reclamavano la definizione della infallibilità del Romano pontefice.
È anche vero che sopravvivevano fra teologi e giuristi questioni piuttosto teoriche o astratte, come quelle di una contrapposizione dell’intero Concilio al Papa; della possibilità di una maggioranza contraria al parere papale; di una minoranza resa vincente da convalida pontificia…
Ma è certo che non si ponevano affatto, da un punto di vista giuridico, questioni di regolarità o validità del Concilio in ragione di ingerenze o interferenze papali.
Semmai – sempre dato e non concesso che Pio IX abbia abusato della sua legittima e riconosciutagli autorità sul Concilio – appunti si moverebbero sul piano dell’etica ecclesiale.
L’opportunità di un Concilio – quasi la sua necessità – anche a fronte dell’autorità primaziale e della infallibilità pontificia, sta nel fatto che questa garantisce la Chiesa dall’errore, ma non le procura di per sé il necessario progresso teolgico. Le impedisce di cadere in errore, ma non le fa conoscere nuove dimensioni e prospettive della verità positiva. L’assistenza dello Spirito Santo a tutta la Chiesa, compreso il papa, è in ordine a questo progresso, una cui condizione essenziale e imprescindibile, ma soltanto condizione, è l’inerranza. Ma il progresso si ha, appunto, non soltanto ma privilegiatamente, nel Concilio.
Se un Concilio si convoca, deve esprimersi liberamente. Inibirlo, zittirlo, determinarlo (quando fosse concretamente possibile) denoterebbe scarsa fiducia nello Spirito!
5 – LA LIBERTA’ DEL DIBATTITO
Resta da considerare se l’adesione della maggioranza alla infallibilità personale sia stata effetto di pressioni curiali, se ci sia stata o no libertà al Concilio.
Pelczar non solo scagiona Pio IX dall’accusa di indebite e pesanti ingerenze, ma ne esalta addirittura l’imparzialità e discrezione:
Quale era il contegno di Pio IX? Per una breve parte lasciò ai Padri del Concilio libertà completa, senza neppure esporre loro i suoi desideri, né inceppare il corso naturale delle cose.
Con tal disposizione, alla deputazione degli inopportunisti, che pretendevano l’abbandono di quella questione scottante, rispose, come era suo dovere, che non poteva intaccare la libertà del Concilio. Ed al card. Schwarzanberg, che gli parlava allo stesso intento, rispose parimenti: “lo, Giovanni Maria Mastai, credo ed accetto l’infallibilità, ma come Papa non desidero nulla dal Concilio. Lo Spirito Santo lo illuminerà.
Hasler, invece, ed anche H. Jedin e W. Kasper sebbene in tono meno stroncatorio, parlano di intemperanze del papa e del clima intimidatorio che avrebbe gravato sul Concilio:
“Bisogna convenire che nella disputa altamente drammatica accesasi intorno alla formulazione del dogma dell’infallibilità a Pio IX mancò la discrezione di cui avrebbe dato prova il suo successore durante il Vaticano 11, in occasione del dibattito sul terzo capitolo della Costituzione dogmatica sulla Chiesa.
A lui si dovette, nel marzo 1870, l’iniziativa di scorporare il capitolo sul papa dallo Schema generale sulla Chiesa. Durante la discussione, muovendo da proprie personali concezioni in merito all’ampliamento dell’infallibilità, egli tentò di influenzare taluni partecipanti al Concilio; esemplare il caso del cardinale Guidi di Bologna, che nella congregazione generale del 18 giugno aveva avanzato una proposta di mediazione per venire incontro alla minoranza.
La sera di quello stesso giorno, Pio IX gli mosse una severa reprimenda e, trascinato da un evidente accesso d’ira, proruppe in quella famosa esclamazione che già il mattino seguente circolava in Concilio: “La Tradizione sono io!” (Jedin).
Bisogna dire, però, che la requisitoria di Hasler è giudicata ingiusta e di cattivo gusto anche da un Tillard non poco critico verso il Concilio (la maggioranza) e non reticente sulla complessità del personaggio Mastai “la cui personalità poteva prestarsi alle esasgerazioni degli ultramontanisti”.
A sua volta Sullivan, pur concedendo non esservi dubbio “riguardo al fatto che venissero esercitate eccessive pressioni e che alcune tattiche adoperate dai leaders della maggioranza fossero lungi dall’essere ammirevoli”, afferma “che pochi recensori di Hasler sono persuasi che egli abbia provato la tesi” delle sleali pressioni fatte sui vescovi da papa Mastai.
H. Kung è tra quei pochi recensori (ha scritto, anzi, la prefazione al libro di Hasler). Ma gli tocca di ammettere che “sulla definizione dell’infallibilità papale tutto era già deciso (ossia era convinzione comune dell’episcopato, del clero e dei fedeli ) ben prima che decidesse il Concilio”; poi è costretto a concludere che “la magioranza non dovette essere coartata per giungere alla definizione, dal momento che questa corrispondeva pienamente alle sue categorie mentali” ed a citare Conzemius che alla tesi di un Concilio privato della libertà replica:
“Non è esatto. Si può certamente dire che la direzione del Concilio, ossequiente alla curia, esercitò a volte pressioni indebite. Anche il Papa, tradito da sporadiche esplosioni del suo carattere intemperante, finì con l’esporsi troppo come uomo di parte. Il diritto alla libera espressione del proprio pensiero non venne però conculcato; la libertà del Concilio rimase inviolata nel suo intimo nucleo.
Non ci fu bisogno che la maggioranza dei vescovi venisse catechizzata dalla curia: la sua mentalità (come abbiamo detto) sollecitava spontaneamente un potenziamento delle prerogative papali. I più agguerriti paladini dell’infallibilità non erano nemmeno italiani o spagnoli, ma uomini del Nord: Manning, arcivescovo di Westminster, Senestrey, vescovo di Regensburg, Mermillod, vicario apostolico di Ginevra”.
Su questo problema dei rapporti fra Pio IX e Concilio prende posizione anche la storiografia diciamo ortodossa: l’Aubert e il p. G. Martina.
Se l’Aubert (che, pur disponendo di ottima documentazione, non conosceva però l’archivio vaticano per tutto il periodo piano) se la cava con un “è difficile, allo stato attuale della documentazione da noi posseduta, determinare in quale misura Pio IX sia intervenuto realmente nei dibattiti e abbia cercato di far pressione sull’assemblea” (p. 541, n. 181), Martina (che all’archivio vaticano, aperto nel 1967, ha potuto attingere, completando la documentazione) dice insieme queste due cose:
Pio IX, che già dalla fine di marzo 1870, aveva preso di fatto nelle sue mani le redini del Concilio, per superarne l’impasse, ne fu alla fine il vero regista: stroncò energicamente le ultime speranze delle minoranze, si impose duramente al Bilio, appoggiò i passi della maggioranza più estremista (III, p. 196 e 209)
Ciononostante, conclude a pag. 215 così: “Pio IX aveva vinto la sua battaglia, condotta con ludicità e fermezza. La sua scarsa comprensione per i punti di vista più aperti, diversi dal suo, lo aveva portato più volte a una certa durezza, che non aveva tuttavia soffocato la piena libertà del concilio. Le decisioni di questo erano perciò pienamente valide. Non erano mancate pressioni (…). esse non avevano però impedito il prolungarsi dei dibattiti, le vivaci polemiche delle due parti, i discorsi più infiammati (come quelli della Strossmayer e del Connolly). La stessa votazione del 13 luglio col suo risultato a sorpresa mostra che un gruppo di padri, autorevolissimi anche se in minoranza, aveva potuto mantenere le proprie convinzioni ed aveva potuto esprimerle con piena libertà di voto”.
Questi sono i giudizi storici a posteriori.
Ma le testimonianze dirette, che cioè provenivano dall’interno del Concilio (lettere, dispacci, diari, relazioni), che cosa dicono?
Chi rilegge spregiudicatamente le testimonianze, ormai complete, collezionate dall’Aubert, dall’Hasler e soprattutto dal Martina, separandole accuratamente dall’atmosfera in cui gli studiosi le ripropongono e dalle prospettive che ne vogliono confortare, vede che marciano su due binari che si reputano (ma sono?) distinti: sulla validità del Concilio e sull’ingerenza di Pio IX.
Sul primo obbiettivo, sono quasi unanimemente concordi per la validità, anche se non mancarono proteste per la conduzione del Concilio.
Sul secondo, si dividono tra quelle di maggioranza (che lodano l’intervento di Pio IX, che avrebbero voluto, anzi, più forte e meno tardivo) e quelle di minoranza (che non giunge però mai a ritenere quell’intervento coercitivo:
E. Ollivier (osservatore francese: L’église et l’état au Concil du Vatican, 2 voll., p. 67): “È certo che la discussione è stata libera quanto è possibile in qualsiasi assemblea umana”.
P. Jcard, superiore di S. Sulpizio (diario): “I1 concilio vaticano, pur non avendo una libertà piena e perfetta, ne ha avuta incontestabilmente a sufficienza per il valore dei suoi atti. Vi è stata libertà di parola e libertà morale di voto”.
Dalle testimonianze rilette fuor di cornice si conclude sicuramente che: ci furono manovre (spesso comprensibili, raramente meno) da parte della maggioranza onde pervenire ad esito nel minor tempo e con il massimo di consensi, fatta salva la congrua estensione e la dignità del dibattito; Pio IX aderì alle richieste della maggioranza dopo ascolto della minoranza, a dibattito ormai maturo; se Pio IX assunse un atteggiamento perentorio e risolutivo, fu quando si rese conto che la minoranza non solo mirava, nel suo buon diritto, ad inserire condizioni, garanzie, restrizioni a salvaguardia dell’ortodossia, ma tendeva e operava (con ripetizione ostruzionistica di interventi scontati e cui s’era data risposta) in modo da rinviare la definizione, nella previsione e speranza di sospensione del Concilio (che era una sorta di violenza di ritorno sulla maggioranza).
Insomma, il concilio dibattè completamente la questione; la minoranza vi si espresse al punto di volersi ripetere ad oltranza. Dunque ci fu libertà; dunque Pio IX non coercì il concilio.
C’è poi un argomento indiretto a riprova della correttezza di Pio IX a riguardo del Concilio. Gli avversari di papa Mastai (anche gli storici cattolici già menzionati) attribuiscono a lui e all’ala più intransigente degli ultramontani l’intenzione di pervenire ad una definizione incondizionata e massimalista dell’infallibilità pontificia, ed alla minoranza invece il merito (che Newman ascrisse alla Provvidenza) di aver impedito alla definizione vaticana, in virtù di correttivi e limiti, di precipitare in apoteosi dell’assolutismo pontificio.
La minoranza, dunque, ebbe ascolto, si fece valere, fu tutt’altro che imbavagliata, se Kung sostiene che fu proprio lei la vincitrice del Concilio.
6 – I PERCHE’ DELL’ INTERPRETAZIONE SFAVOREVOLE
Se questa è la verità documentaria e documentata, come mai storici di buono o di ottimo nome dalle medesime fonti e testimonianze non sono giunti a questa conclusione? Per quali ragioni estrinseche i teologi del dissenso o progressisti, dalle stesse fonti disponibili a tutti, ricavano un giudizio così negativo su papa Mastai; e studiosi cattolici ortodossi, tra i quali Aubert e Martina, conclusioni sullo stesso papa di sconcertante ambiguità?
Più remotamente, occorre prender coscienza di quella soggettività e relatività della percezione, del nostro metterci di fronte alla realtà, che non vale soltanto per la conoscenza comune, banale, ma che insidia ed inficia anche il giudizio dello storico di professione.
Quando lo storico “monta” i dati documentarii, potrebbe introdurre un criterio estrinseco ad essi, che ne sposterebbe da una parte o da altra il colore, il sapore, il senso…
Inoltre, anche allo storico di migliori intenzioni può accadere che gli si intruda, nel bel mezzo di una rappresentazione intenzionalmente impersonale, direi sterilizzata, una nuance, un inciso, una parentesi, che parrebbe anch’essa oggettiva, un dato di fatto, ma che invece testimonia di una più o meno consapevole presa di posizione. Un esempio, appena.
A. Polverari, Vita di Pio IX, II, p. 120:
“All’atto di proclamare il dogma dell’lmmacolata Concezione Pio IX era profondamente commosso, la sua voce era prodigiosamente sonora, il suo volto fu illuminato da un raggio di sole che penetrò da uno dei finestroni di S. Pietro” (quattro testimonianze: Madre Maria Macchi dell’Istituto del: S. Cuore; Pietro Gentili, Lorenzo Cossa, Filippo Tolli).
Ma non reca alcuna testimonianza sulle condizioni atmosferiche della conclusione del Concilio.
Martina (Pio IX, III, p. 166 e p. 215): nessuna notazione meteorologica sulla proclamazione del dogma dell’Immacolata. Ma per la fine del Concilio ricorda:
Mercoledì 8 dicembre i padri conciliari si riunirono per la prima volta in S. Pietro, sotto una pioggia torrenziale, per la cerimonia inaugurale. I cannoni di castel S. Angelo tuonavano a salve dal far del giorno (altre cannonate, non a salve, di suono ben diverso, Roma avrebbe ascoltato la mattina del 20 settembre, dieci mesi più tardi).
Il 18 (luglio ’70), in mezzo a un improvviso uragano e nella più completa oscurità, rotta solo da alcune candele, si svolse la sessione pubblica, con la votazione della costituzione Pastor Aeternus, che raccolse 535 placet e 2 non placet (subito ritirati).
Si noti: pioggia torrenziale… improvviso uragano e più completa oscurità…
Saranno pure dati da fatto, circostanze atmosferiche assodate. Ma chi si aspettava tanta attenzione alle condizioni metereologiche? Né l’esito del Concilio dipendeva dal tempo, né il buono o cattivo tempo di Roma dall’esito del Concilio.
Ma possono esserci cause più prossime – che non l’inevitabile soggettività della percezione -per la diversa interpretazione anche degli stessi fatti da parte degli storici.
Il giudizio durissimo dei teologi progressisti potrebbe spiegarsi con la loro preoccupazione in ordine all’obbiettivo ecumenico. Essi pensano che il dogma dell’infallibilità pontificia costituisce uno scoglio sul cammino verso l’unione delle confessioni cristiane.
Di negare esplicitamente l’infallibilità, che li metterebbe in modo plateale fuori della comunione cattolica, non se la sentono. Tentano di darle un senso diverso (vedi Kung) o di sminuirne la forza o la portata nella vita di fede, attribuendo quel dogma non al Concilio, ma alla gestione assolutistica di esso da parte di Pio IX. Si offrirebbero attenuanti al cattolicesimo per il peccato di forzature teologiche, screditando un Pio IX già del resto compromesso dal Sillabo e, sul versante politico, dall’essersi opposto al risorgimento nazionale.
L’ambiguità o perplessità di Aubert e di Martina potrebbe essere il pedaggio ch’essi pagano – un residuo che loro rimane addosso – alla/dalla storiografia antipiana che essi, per primi, con documenti alla mano, hanno sfatato. Dalla brutale denigrazione ad una discreta rivalutazione su molti piani, è già un gran passo avanti. Subito di più sarebbe apparso apologesi (l’handicap di tanto cattolicesimo).
Ma dovrebbe esserci una ragione più profonda.
La Costituzione Pastor Aeternus, come già il Sillabo, chiudeva ad errori, ma non apriva alla modernità. Affermava l’infallibilità del Papa, ma non metteva in luce la missione dell’episcopato, la funzione della collegialità e del magistero episcopale. Quel dogma, per di più, sembrava, dopo il Sillabo, l’ultima sfida alla cultura e alla civiltà moderne.
Questi i limiti del Vaticano I e della sua maggioranza, che sarebbero stati corretti poi dal Vaticano II, in cui la minoranza illuminata ma sconfitta del Vaticano I divenne maggioranza vittoriosa. Quelle verità erano già allora alla portata della Chiesa. Ma non si affermarono… per la miopia e la fretta di Pio IX.
Orbene, quanto ai rapporti fra Vaticano I e Vaticano II Lortze e Billmayer fanno osservare che non ci sarebbe stato il Vaticano II senza il I e che, inoltre, la grandezza del Vaticano II s’illumina del dogma del primato e della infallibilità del Papa. E anche proprio di questo dogma s’illumina la grandezza di Pio IX. I1 Vaticano II non è grande perchè fu povero il I. II Vaticano II non ha corretto il I: lo ha accolto e ne ha portato a pienezza o compimento la verità. Anche la Chiesa ha le sue stagioni, ed il progresso nella conoscenza della Rivelazione i suoi tempi propizi.
Mencucci A. , Brunetti M. (a cura di), Atti senigalliesi nel Bicentenario della nascita di Pio IX, Senigallia, 1992, pp. 132-144